Franceschini e il santone di Quelo

Dalla mozione Franceschini: “Un partito che coltiva le diversità culturali al suo interno come una ricchezza, ma che cerca e trova la sintesi. Diversità non significa galleggiare e non scegliere. Significa dialogare, accettarsi e poi decidere. Nel modo più semplice e antico, quello che per noi sembrava un tabù: votando.
In questi quasi cinque mesi da Segretario ho cercato di fare così (…) E così continueremo a fare: discutere e decidere, anche sui temi più difficili, a cominciare da quelli eticamente sensibili.
Ci aspetta alla Camera il lavoro sul testamento biologico. Ci ascolteremo, dialogando. Ma alla fine decideremo la posizione del partito. Rispetteremo fino in fondo chi non si sentirà di condividerla, ma decideremo. Sarà il modo più onesto di interpretare la laicità del nostro partito e di rispettare il principio intoccabile della laicità dello stato
.”

Per Franceschini, dunque, il Partito Democratico, siccome è fatto di “diversità culturali”, ogni volta che si presenta una “questione etica” deve fare la conta e decidere a maggioranza. Il Partito Democratico rinuncia insomma ad avere una propria identità su questo tipo di temi. Ma dei temi “eticamente sensibili” non è che ci sia un elenco: una “questione di coscienza” si può invocare su qualunque argomento, essendo appunto la “coscienza” una questione individuale.

Mi viene in mente Guzzanti quando faceva il santone di Quelo e rispondeva alle telefonate.
“Pronto? Senta, cosa dice la religione di Quelo sulla tale questione?”
“Tu come la vedi?”
“Mah, non so, voi la pensate così oppure cosà…?”
“La seconda che hai detto [prende appunti]”

In mancanza di una identità propria, di valori di fondo – ed un partito esiste in quanto ha dei valori di fondo in cui si riconoscono quelli che ne fanno parte – si vota e si sceglie la linea di maggioranza. E non una volta per tutte, in un congresso fondativo: di volta in volta, via via che emergono “questioni etiche” o divergenze di qualche genere.

Chiariamo: è normale che in un partito si abbiano opinioni diverse, su moltissime questioni. Ma ci sono valori di fondo che devono definire appunto l’identità di quel partito, e sui quali non si discute. Altrimenti non è un partito politico, quello che si ottiene, ma una forza puramente numerica che sta insieme solo per poter essere abbastanza consistente; una coalizione che aggrega le idee più disparate (le “diversità culturali” come “ricchezza”) per cercare di diventare la più forte (la “vocazione maggioritaria” nella sua accezione peggiore). E se si dice che su qualunque questione si può votare e scegliere a maggioranza, si sta facendo proprio questo: si rinuncia ad essere un partito politico.

Non è questo il progetto su cui è nato il PD. La fusione di forze politiche diverse per storia e cultura ha senso se tali forze decidono che le cose che hanno in comune sono più importanti di quelle su cui divergono, e fondano sulle prime una identità di partito. Ed è con un percorso di questo tipo che si è voluto fondare il Partito Democratico, almeno sulla carta. Se viene meno questo carattere di fondo, il PD non serve; peggio: è un inganno.