[Repost] Debord disinnescato

Post del’anno scorso che ripropongo. L’anniversario e l’articolo che cito sono anch’essi di marzo 2007.

debordQuarant’anni fa usciva “La società dello spettacolo” di Guy Debord. Un ottimo articolo del saggista Antonio Gnoli (cfr. “I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger”) ricorda l’utopia e la lungimiranza di questo testo celebre, all’epoca di grande impatto – molto citato ma non altrettanto letto (e anche abbastanza dimenticato, almeno come approccio di ulteriori studi).

In effetti il capitalismo moderno – il mercato moderno – si è fatto un sol boccone di Debord e delle sue velleitarie utopie. Il Situazionismo è stato risucchiato nel venir meno di tutti i fermenti culturali e politici nati tra fine anni ’60 e inizio ’70. E bisogna ammettere che il linguaggio di Debord e la parte propositiva/ottativa del suo testo prestavano il fianco a tale fraintendimento.

Dico “fraintendimento” perché – come nel caso di Marx un secolo prima – in Debord c’è una parte di analisi della società che sta benissimo in piedi anche senza l’altra parte, quella degli intenti e degli obiettivi. E quella parte di analisi resta ancora valida e attuale, anche se la realtà del mercato globale è andata persino oltre le previsioni di Debord, ed ha nel frattempo sviluppato la capacità di assimilare le voci di dissenso o di semplice distinzione: invece di combatterle o isolarle le trasforma in spettacoli anch’esse (possibilmente a pagamento).
È, questa, una capacità che è cresciuta in tutti questi 40 anni. Paradossalmente anche l’impatto “rivoluzionario” dei fermenti sociali e politici degli anni dal 1968 a (diciamo) il 1977 (almeno in Italia) ha contribuito a far crescere questa capacità di “disinnescare assimilando” attraverso il velleitarismo e radicalismo di quei fermenti.

Niente di nuovo, nel dire oggi tutto ciò. Don DeLillo, in Cosmopolis (2003), ha dipinto il capitalismo moderno proprio in quei termini: il dissenso come sfogo necessario ma neutralizzabile (ed infatti quel romanzo suonava un po’ datato appena uscì).
Vari altri scrittori (Lethem, Wallace etc) nell’ultimo decennio hanno descritto il mondo contemporaneo mettendone in risalto il grottesco, l’assurdo, il teatrale. Gli scrittori, cioè, colgono quel mutamento “patologico” della realtà attuale per cui i comportamenti veri e quotidiani tendono ad imitare quelli fittizi inscenati per far vendere le merci. L’elemento patologico, in ciò, è nel fatto che anche l’identità e l’equilibrio dei singoli si adeguano alla logica del mercato. (Cfr. Dorfles, “Fatti e fattoidi“.)
Tutto ciò è in effetti il compimento delle peggiori previsioni di Debord, il quale infatti, nei “Commentari sulla società dello spettacolo” (1988), concludeva dicendo che “Il vero ha smesso di esistere quasi dappertutto, e il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica“(*).

Ciò nondimeno, dicevo, l’analisi di Debord mantiene validità (specie se la si spoglia degli orpelli linguistici della critica marxista): lo dimostra il fatto che la sostanza di essa – cioè la descrizione del potere politico – prefigura quella crisi del sistema democratico che oggi si comincia ad avvertire e di cui si è iniziato a parlare solo da qualche anno.

(*) La “scomparsa dell’opinione pubblica” è anche l’allarme/diagnosi di chi, in Italia negli ultimi mesi, vede il pericolo insito nel ritorno al governo della destra berlusconiana.