“Agape, agape”, ancora una volta

Ripubblico la recensione di "Agape, agape" di William Gaddis: ogni volta che ci ripenso quel testo mi pare più attuale! E quindi.

Lo straordinario, ultimo testo di William Gaddis esce ad alcuni anni dalla  morte dell’autore (avvenuta alla fine del 1998), per sua esplicita volontà.
È un monologo di circa 90 pagine in cui uno scrittore malato terminale di enfisema polmonare (come Gaddis) cerca di ricapitolare e mettere insieme un testo al quale ha lavorato per decenni, un testo che doveva essere una storia della pianola meccanica negli USA come emblema della massificazione e devastazione della creazione artistica.

L’impianto autoreferenziale e autobiografico è fin troppo evidente fin dall’inizio: Gaddis raccolse davvero materiale su quell’argomento per almeno 40 anni, una quantità enorme di materiale per un’opera che poi decise di trasformare in un breve romanzo, "Agape, agape", appunto.
In questa scelta – così come nella costruzione autoreferenziale – è contenuto in parte il senso del testo e le tesi che sostiene: la rinuncia a scrivere un testo desiderato per tutta la vita contiene in sé infatti il soccombere dell’artista singolo di fronte alla società tecnologicamente massificata; e tuttavia questa rinuncia non è una sconfitta, come si deduce dalle ultime pagine del testo.

Il protagonista di "Agape, agape" denuncia dunque l’uccisione dell’artista per effetto della tecnologia, della massificazione del gusto, della democrazia: una tesi indubbiamente elitarista e reazionaria, e certamente non nuova (Eliot, Pound, Jünger si muovono su corde simili, per citare i primi che mi vengono in mente): "…because that’s what it’s about, that’s what my work is about, the collapse of everything, of meaning, of language, of values, of art, disorder and dislocation wherever you look..."

E ancora: "…where individual is lost, the unique is lost, where authenticity is lost not just authenticity but the whole concept of authenticity, that love for the beautiful creation before it’s created that that, (…) That natural merging of created life in this creation in love that transcends it, a celebration of the love that created it they called agape, that love feast in the early church, yes."

La tesi apocalittico-elitarista per cui l’arte massificata può solo soddisfare l’entertainment – e la tecnologia ha permesso ciò – (Gaddis cita vari autori, persino Flaubert quando dice "L’unico sogno della democrazia è di elevare il proletariato al livello di stupidità della borghesia") è radicale e non nuova, appunto – tanto meno condivisibile, almeno in tale forma.

Ma il senso del testo di Gaddis non è questo.

Il suo citare Tolstoj (La sonata a Kreutzer), Melville (Moby Dick), Bernhard (Il soccombente, vero modello ispiratore di Agape, agape, tanto che Gaddis scrive nei suoi appunti che sembra che Bernhard abbia rubato le sue idee ancora prima che lui le avesse), du Maurier (Trilby), Huizinga (Homo ludens), Freud etc. non serve ad argomentare quella tesi bensì a indicare la affinità tra menti diverse in epoche diverse e la fratellanza (agape) tra queste individualità che è il risultato ancora possibile della creazione artistica – risultato e motore ancora possibile, anche oggi, della creazione artistica.

"…They’d say I’m afraid of the death of the élite because it means the death of me of course I can’t really blame them, I’ve been wrong about everything in my life it’s all been fraud and fiction, let everybody down except my daughters…"

Gaddis parla anche di sé, appunto. E nelle ultime pagine il gioco del racconto autoreferenziale svanisce ed è l’autore che parla direttamente al lettore, senza più gioco o ironia.

Alcuni versi di Michelangelo (presenti in tutte le opere di Gaddis) esplicitano questo riferimento autobiografico: "O Dio, o Dio, o Dio/ Chi m’ha tolto a me stesso/ Ch’a me fusse più presso/ O più di me potessi, che poss’io?/ O Dio, o Dio…".

Ed ecco come la riflessione/confessione autobiografica si salda alla tesi sull’arte nella società contemporanea: lo scrittore anziano e malato, di fronte alla stesura di un’opera che deve rinunciare a scrivere, punta l’attenzione su quel "se stesso che avrebbe potuto fare di più", sulle possibilità di un artista da giovane frustrate dal mercato tecnologicamente massificato. Frustrate perché? Forse per aver cercato il consenso e l’immortalità in un’epoca in cui ciò è impossibile se non rinunciando a se stessi, appunto ("Quale immortalità se oggi c’è una nuova generazione ogni 4 giorni?", dice Gaddis).

La sconfitta individuale (del Soccombente Friedrich o dello scrittore di "Trilby" Svengali; ma anche di Gaddis che scrive "Il mio primo libro ["Le perizie" nda] è diventato il mio nemico") è dunque frutto di un’ambizione troppo egocentrica e soprattutto male indirizzata: non il mercato massificato può fruire dell’opera creata dal "se stesso che può fare di più", ma proprio l’autore e soprattutto altri uomini con una sensibilità affine alla sua. In questo senso l’opera d’arte senza compromessi ha ancora senso.

Una tesi fino in fondo elitarista, senza dubbio, ma che assume credibilità come ‘confessione’ individuale (per di più sul letto di morte).

Oltre a tutto ciò, il testo è bellissimo. Purtroppo non è ancora tradotto, credo.

(nella foto, "Bill Gaddis" di Julian Schnabel)

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