Archivi categoria: filosofia

A painting, an artist, a philosopher: The “Angelus novus” and its legacy

The great swiss artist Paul Klee made one of his most famous artwork, the “Angelus Novus“, in 1920, using the oil transfer method he invented  (a kind of monoprint). This amazing image owes part of its importance and fame to the words of german philosopher Walter Benjamin, who bought the monoprint and kept it until he was obliged to leave Germany in 1940, due to Nazis persecution.

Here’s how Benjamin read Klee’s artwork in 1940:

A Klee painting named Angelus Novus shows an angel looking as though he is about to move away from something he is fixedly contemplating. His eyes are staring, his mouth is open, his wings are spread. This is how one pictures the angel of history. His face is turned toward the past. Where we perceive a chain of events, he sees one single catastrophe which keeps piling wreckage upon wreckage and hurls it in front of his feet. The angel would like to stay, awaken the dead, and make whole what has been smashed. But a storm is blowing from Paradise; it has got caught in his wings with such violence that the angel can no longer close them. The storm irresistibly propels him into the future to which his back is turned, while the pile of debris before him grows skyward. This storm is what we call progress.“[1]

I made a portrait of Paul Klee 3 years ago. It is the drawing below. I would put the “Angelus novus” inside it for the strong meaning it has in the current legacy of Klee’s work. The whole production of this great artist has had a great deal of influence in art, even today.

Here is the original “Angelus Novus”

 [1] W. Benjamin, “Theses on the Philosophy of History”, 1940

Antropologi poco promossi (finora)

È curioso che qua a Pistoia, dal 29 al 30 maggio, ci sia una manifestazione cuturale cui partecipano Marco Aime,  Jean-Loup Amselle, Giuseppe Barbera, Guido Barbujani, Sonia Bergamasco, Mariella Berra, Gualtiero Bertelli, Maurizio Bettini, Edoardo Boncinelli, Luciano Canfora, Fabrizio Gifuni, Riccardo Luna, Michela Marzano, Massimo Montanari, Andrea Moro, Moni Ovadia, Francesco Remotti, Olivier Roy, Amartya Sen, Emanuele Severino, Caterina Soffici, Gian Antonio Stella, Emanuele Trevi.

È curioso soprattutto che in città, al momento, pochi lo sappiano. 🙂

Derrida e l’Europa dell’integrazione possibile

[Repost con aggiunte di un articolo di qualche anno fa]

Il 22 settembre 2001 Jacques Derrida ricevette, a Francoforte, il Premio Adorno.
Il premio avrebbe dovuto esser consegnato, come sempre, l’11 settembre (data di nascita di Adorno); ma l’11 settembre 2001 Derrida era in Cina, dunque la cerimonia fu fissata per il 22.

Bompiani ha pubblicato, in un libricino della collana Paesaggi (“Il sogno di Benjamin“), il discorso di Derrida per la consegna di quel premio.
È un po’ più che un discorso di circostanza; e suona forse ancora più attuale oggi, a 8 anni di distanza, di quanto non fosse allora. (Quell’11 settembre 2001, come tutti sanno, si son levate polveri che solo adesso – forse – si stanno posando.) Il tema strettamente filosofico
del debito di Derrida verso Adorno si sviluppa in modo tortuoso andando a parlare dell’antisemitismo, della comprensione tra culture (e lingue), dell’attentato delle Twin towers avvenuto pochi giorni prima.

Il nocciolo: una tradizione politica e irrazionalista ha attraversato in forme molteplici il 900. Che essa possa essere ancora il cardine di un progetto sociale ideale, suona un po’ bizzarro. Il ‘900 ha pagato caro il credito dato a utopie idealiste e cecità di massa. Ma Derrida sostiene proprio quello, e lo argomenta con la consueta acutezza ed ambiguità.
Può un sognatore parlare del suo sogno senza svegliarsi? Il filosofo, dice Derrida, risponde di no; l’artista risponde “forse, talvolta”. Adorno, e Benjamin prima di lui, oscillano tra le due risposte, tentando di farle coesistere. Ciò implica quella che Adorno chiama “la possibilità dell’impossibile”: “Nel paradosso della possibilità dell’impossibile, scrive Adorno, per l’ultima volta si sono trovati insieme in lui [Benjamin] misticismo e illuminismo. Egli ha bandito il sogno senza tradirlo, e senza farsi complice di ciò su cui i filosofi sempre si sono trovati d’accordo: che questa unione non fosse possibile”.

Bandire il sogno senza tradirlo” suona più che altro lirico; ma in Benjamin acquista anche un senso preciso; (un senso che tra l’altro “veste” bene sul personaggio Walter Benjamin così come appare nel romanzo di Michele Mari “Tutto il ferro della Torre Eiffelen passant); un senso che in Adorno prende invece la forma dell’esigenza di salvaguardare la propria lingua dell’infanzia(*).
Per Derrida l’attenzione di Adorno verso la lingua natale è un discorso che “dovrebbe risultare esemplare, oggi, per tutti coloro che cercano, nel mondo, ma in particolare nell’Europa in costruzione, di definire un’altra etica o un’altra politica, un’altra economia, o anche un’altra ecologia della lingua: come coltivare la poeticità dell’idioma in generale, il suo presso di sé, il suo oikos, come salvare la differenza linguistica, regionale o nazionale, come resistere allo stesso tempo all’egemonia internazionale di una lingua di comunicazione (per Adorno era già l’angloamericano), come opporsi all’utilitarismo strumentale di una lingua puramente funzionale e comunicativa, senza tuttavia cedere al nazionalismo, allo statal-nazionalismo, o al sovranitarismo statal-nazionalista, senza prestare queste vecchie armi arrugginite alla reattività identitaria e a tutta la vecchia ideologia sovranitarista, comunitarista e differenzialista?

Programma impegnativo e dalla soluzione contraddittoria, quello dove va a parare il discorso di Derrida. La soluzione, infatti, è nell’eredità di una linea di pensiero del ‘900 capace di dare continuità e senso alla cultura occidentale (e alla società, utopisticamente), e consiste nel cercare di salvaguardare ciò che è intimamente radicato in ciascuno – in sé e negli altri – in termini di sogno, lingua, inconscio, infanzia – e che corrisponde, come vulnerabilità, come essere-senza-potere, all’animale, al bambino, all’ebreo, allo straniero, alla donna.

Discorso complesso, su cui non è questa la sede per dilungarsi (né io ne ho la competenza); discorso che inoltre perde consistenza quando lo si allarga fino a trarne una impostazione politica per il filosofo europeo di oggi. Perde peso non perchè non sia condivisibile,
IMO, una scelta “forte” come quella succitata (che coniuga storia e storia personale nella difesa e nella salvaguardia degli inermi motivata
dall’esigenza di “bandire il sogno senza tradirlo”), ma perché è a dir poco utopistico pensare che i filosofi possano incidere sullo sviluppo
dell’Europa politica.

Ciò nondimeno è tema concretamente attuale proprio oggi, nel momento in cui l’integrazione culturale e la modifica/salvaguardia delle identità personali e collettive è questione che chiede e cerca soluzioni e linee-guida. La direzione tratteggiata allora – pochi giorni dopo l’11 settembre – da Derrida è un possibile punto di partenza per rispondere concretamente sia all’idealismo del generico valore della fratellanza, sia al nazionalismo criptorazzista di chi è ostile a qualunque integrazione che non sia mera sottomissione.

(*) Sulla lingua/lingue dell’infanzia e sull’integrazione trans-nazionale, andrebbe visto e comparato anche Elias Canetti.

[Repost] Debord disinnescato

Post del’anno scorso che ripropongo. L’anniversario e l’articolo che cito sono anch’essi di marzo 2007.

debordQuarant’anni fa usciva “La società dello spettacolo” di Guy Debord. Un ottimo articolo del saggista Antonio Gnoli (cfr. “I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger”) ricorda l’utopia e la lungimiranza di questo testo celebre, all’epoca di grande impatto – molto citato ma non altrettanto letto (e anche abbastanza dimenticato, almeno come approccio di ulteriori studi).

In effetti il capitalismo moderno – il mercato moderno – si è fatto un sol boccone di Debord e delle sue velleitarie utopie. Il Situazionismo è stato risucchiato nel venir meno di tutti i fermenti culturali e politici nati tra fine anni ’60 e inizio ’70. E bisogna ammettere che il linguaggio di Debord e la parte propositiva/ottativa del suo testo prestavano il fianco a tale fraintendimento.

Dico “fraintendimento” perché – come nel caso di Marx un secolo prima – in Debord c’è una parte di analisi della società che sta benissimo in piedi anche senza l’altra parte, quella degli intenti e degli obiettivi. E quella parte di analisi resta ancora valida e attuale, anche se la realtà del mercato globale è andata persino oltre le previsioni di Debord, ed ha nel frattempo sviluppato la capacità di assimilare le voci di dissenso o di semplice distinzione: invece di combatterle o isolarle le trasforma in spettacoli anch’esse (possibilmente a pagamento).
È, questa, una capacità che è cresciuta in tutti questi 40 anni. Paradossalmente anche l’impatto “rivoluzionario” dei fermenti sociali e politici degli anni dal 1968 a (diciamo) il 1977 (almeno in Italia) ha contribuito a far crescere questa capacità di “disinnescare assimilando” attraverso il velleitarismo e radicalismo di quei fermenti.

Niente di nuovo, nel dire oggi tutto ciò. Don DeLillo, in Cosmopolis (2003), ha dipinto il capitalismo moderno proprio in quei termini: il dissenso come sfogo necessario ma neutralizzabile (ed infatti quel romanzo suonava un po’ datato appena uscì).
Vari altri scrittori (Lethem, Wallace etc) nell’ultimo decennio hanno descritto il mondo contemporaneo mettendone in risalto il grottesco, l’assurdo, il teatrale. Gli scrittori, cioè, colgono quel mutamento “patologico” della realtà attuale per cui i comportamenti veri e quotidiani tendono ad imitare quelli fittizi inscenati per far vendere le merci. L’elemento patologico, in ciò, è nel fatto che anche l’identità e l’equilibrio dei singoli si adeguano alla logica del mercato. (Cfr. Dorfles, “Fatti e fattoidi“.)
Tutto ciò è in effetti il compimento delle peggiori previsioni di Debord, il quale infatti, nei “Commentari sulla società dello spettacolo” (1988), concludeva dicendo che “Il vero ha smesso di esistere quasi dappertutto, e il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica“(*).

Ciò nondimeno, dicevo, l’analisi di Debord mantiene validità (specie se la si spoglia degli orpelli linguistici della critica marxista): lo dimostra il fatto che la sostanza di essa – cioè la descrizione del potere politico – prefigura quella crisi del sistema democratico che oggi si comincia ad avvertire e di cui si è iniziato a parlare solo da qualche anno.

(*) La “scomparsa dell’opinione pubblica” è anche l’allarme/diagnosi di chi, in Italia negli ultimi mesi, vede il pericolo insito nel ritorno al governo della destra berlusconiana.

Vonnegut/ Un uomo senza patria

FInita questa breve raccolta di articoli (o conferenze riscritte, non so) di Kurt Vonnegut. Col consueto disincanto pieno di ironia, l’autore di Mattatoio 5 parla di varie questioni di attualità e letteratura. I testi, tutti molto brevi, sono del 2005 (se non tutti, gran parte) e i bersagli preferiti dell’allora 83enne Vonnegut sono George W. Bush, l’inquinamento e la stupidità umana. Ma ci sono anche molti aneddoti personali.

unuomosenzapatriasq0Comunque se parlo di questo Un uomo senza patria (A Man without a Country) è solo per annotare il fatto che Vonnegut appartiene a quell’insieme di persone che hanno un’idea molto disincantata, cinica e abbastanza nichilista della vita umana; e che inoltre sono pessimisti riguardo al futuro della nostra specie; e che tuttavia trovano che ci sono cose per cui vale la pena vivere.
Anche se non esiste alcun senso alto per le nostre vite, pare pensare Vonnegut, ci sono tuttavia cose davvero piacevoli, divertenti, appaganti che possiamo scoprire e raggiungere (una di queste, una delle poche cose per cui vale la pena vivere, secondo KV, è la musica).

Non sono molti, quelli che appartengono a quell’insieme di persone e ne hanno così lucida consapevolezza – purtroppo, vorrei aggiungere.

Ulisse /Premessa 1: Dante

Questo benedetto post su Ulisse lo rimando da circa un anno e mezzo. Perché è impegnativo. Allora, ecco, meglio se lo spezzo e comincio a scriverne delle parti, dei lemmi.

Cominciamo da una questione che non sta all’inizio ma in medias res (*); e cioè il viaggio fatale di Ulisse descritto da Dante in Inferno XXVI.
Lo spirito di Ulisse in forma di fiamma racconta, su precisa richiesta di Virgilio, la propria morte ("dove, per lui, perduto a morir gissi"), ovvero del viaggio di 5 mesi oltre le Colonne d’Ercole che si conclude con il naufragio in cui muoiono Ulisse e tutto il suo equipaggio.

Ma a quale episodio dell’Odissea si riferisce il racconto dantesco? Evidentemente al viaggio di Ulisse nell’Ade (Odissea X-XI): dall’isola di Circe l’eroe parte verso occidente e, varcato l’Oceano, in un giorno di navigazione giunge sulle rive del regno di Plutone… No, non c’è nessun naufragio; anzi, l’Ulisse omerico, dopo aver parlato con le ombre dei morti, riprende il suo viaggio. Inoltre, per Dante, Ulisse e la sua "compagna picciola" arrivano in vista di Gibilterra partendo sì dall’isola di Circe ("Quando/ mi diparti’ da Circe…") ma dopo molti anni: "Io e’ compagni eravam vecchi e tardi/ quando giugnemmo a quella foce stretta/ ov’Ercule segnò li suoi riguardi". La descrizione dantesca, in certi tratti, ricorda in effetti non il viaggio di Ulisse nell’Ade ma l’ultimo viaggio, quello profetizzato da Tiresia che Ulisse dovrà affrontare dopo il ritorno ad Itaca, come una condanna: il Laertiade dovrà infatti viaggiare fino a trovare un popolo che non conosce le arti della navigazione e non fa uso di sale: un viaggio indeterminato, che può durare fino alla vecchiaia e dopo il quale Ulisse potrà morire serenamente in Itaca.

Ma questa lieve ambiguità è probabilmente fortuita. Dante, come è noto, non conosceva il testo omerico; le sue fonti sono i vari scrittori latini che hanno riportato episodi e personaggi dell’Odissea. Né si può dire con certezza quali di questi autori (che, tutti, tacciono sulla morte di Ulisse) Dante conoscesse.
Insomma, Dante ha inventato; e ha tirato fuori un’invenzione straordinaria.

Ah, prima di proseguire vorrei chiarire che non sto facendo l’esegeta spaccacapelli – la mia competenza appena amatoriale non me lo consentirebbe. Vado a parare da un parte precisa, alla fine.

Tra gli elementi notevoli dell’Ulisse dantesco c’è il fatto che uno dei suoi tratti principali – il desiderio di scoperta e di conoscenza ("l’ardore… a divenir del mondo esperto") contribuisce a creare la rilettura rinascimentale, umanistica e poi anche illuministica di Ulisse. Per Dante, Odisseo sta tra i dannati, e la sua colpa è grave: il sacrilegio (il furto della statua di Atena a Troia) e pure l’inganno ("e dentro da la lor fiamma si geme/ l’agguato del caval"). Ma assieme a questa grave colpa c’è anche il riconoscimento della grandezza del personaggio.
Dante insomma "inventa" una figura quasi positiva alla quale fa interpretare un ruolo delicatissimo e fortemente simbolico. Del resto, a giustificare formalmente – documenti alla mano, per così dire – una certa simpatia per questo Ulisse c’è il fatto che dai suoi peccati è scaturita la caduta di Troia, quindi la fuga di Enea e quel che ne segue (creazione della stirpe romana, bla bla, fondazione di Roma, bla bla, la sede papale, bla etc.).

Allora, ecco, l’Ulisse di Dante diventa l’incarnazione del nostos, il ritorno, come ineluttabile istinto umano.
Anche l’Odissea è interamente imperniata sul nostos; ma Dante intende creare un grande simbolo, un segno(**) (collocandosi in ciò perfettamente nella tradizione latina). Il suo Ulisse non cerca la patria, la moglie e la famiglia: cerca la conoscenza. E, giunto al confine ultimo dell’esplorazione consentita – le Colonne d’Ercole – sente che è proprio oltre quel limite che deve andare per trovare "vertute e canoscenza".
Questo Ulisse non sa, mentre si lancia nel "folle volo", che sta seguendo un altro, più forte desiderio di nostos: non il ritorno in patria ma quello verso l’innocenza primigenia. E non sa neanche che l’unico punto di arrivo possibile di tale viaggio è la morte. Arringa i compagni ricordando loro la "semenza" umana, ed ha ragione più di quel che crede.
La navigazione verso occidente è infatti un viaggio verso l’abisso: infatti sembra sempre notte ("Tutte le stelle già dell’altro polo…"; "lo lume era di sotto della luna…"), e già questo richiama l’aspetto dell’Ade, del mondo dei morti pagano (nell’Odissea Ulisse va verso l’Ade facendo rotta ad occidente: in greco zhopos=oscurità=occidente). Poi l’avvistamento della "montagna, bruna/ per la distanza". È la montagna del Purgatorio, in cima alla quale si trova il giardino dell’Eden (con l’albero della conoscenza, bla bla, peccato originale, bla). Ma lì non ci si può andare – di sicuro non un uomo vissuto prima della venuta di Cristo – e allora dalla "nova terra" parte una tromba d’aria ("un turbo")(***) che affonda la nave e uccide Ulisse e tutti i suoi compagni.
I commentatori hanno sempre parlato, a tal proposito, della punizione per il peccato d’orgoglio di Ulisse: non ci dovevi andare, ben ti sta. Ma Dante – che mette Ulisse all’inferno non per questo ma per gli altri peccati già detti – dice piuttosto che quel desiderio di conoscenza è il più alto e il più forte "desio" che l’uomo sente; e che non può non seguirlo anche se non ha altro punto d’arrivo che la morte.
Del resto anche Beatrice (Purg. XXXIII) dice a Dante (e lo invita a prender nota, scrivitelo perbenino ché poi lo devi dire agli altri, giù) "del viver ch’è un correre alla morte". Insomma, si può dire e citare molto altro per chiarire questo punto, ma ora sorvolo.

Quindi c’è questo denso edificio ontologico di cui l’Ulisse dantesco si fa "segno".

Ora, che succede circa 200 anni dopo Dante? Succede il fatto forse più importante del Rinascimento: Colombo scopre l’America; inizia l’era delle grandi esplorazioni; le carte geografiche vanno ricomprate tutte. Si può, eccome, andare oltre l’oceano!
E del modello dantesco (e classico) che ne è? La fortuna della Comoedia, alla fine del ‘400, è già iniziata e non si fermerà più. Inoltre anche l’Odissea ha ricominciato a circolare.
Ed ecco allora la cosa straordinaria: la forza poetica dell’Ulisse dantesco (e la grandezza dell’opera di Dante nell’insieme) fa sì che la vicenda del canto XXVI dell’Inferno, invece di essere indebolita dalle scoperte geografiche, ne diventa l’esaltazione. Colombo stesso viene salutato come novello Ulisse; Vespucci scrive lettere in cui cita quei versi di Dante. La "nova terra", il Purgatorio, sembra la "profezia" poetica del Nuovo Mondo – un nuovo Eden.

L’oscurità, la morte, il naufragio voluto da quella insondabile volontà ("come altrui piacque!", verso la cui terribile grandezza torna nel ‘900 negli scritti di Primo Levi e poi di altri); gli elementi insomma di cupa ineluttabilità che Dante ha caricato sul suo personaggio si stemperano e passano in secondo piano, per i lettori rinascimentali. Ne risulta evidenziato l’aspetto di Ulisse come esploratore, caparbiamente in cerca della scoperta, del sapere; e questo aspetto guida anche la rilettura del testo omerico, tanto che il Canto di Ulisse finisce per apparire come uno degli elementi di congiunzione e di tradizione (per mezzo della poesia) tra il sapere antico e l’episteme moderna, fino a diventare ("Fatti non foste a viver come bruti…") uno dei vessilli della nascente scienza sperimentale.
(1.segue)

(*) Come scriveva Anacleto Bendazzi, la Divina Commedia è inferiore alla Bibbia come compiutezza e universalità: la seconda inizia infatti "In principio", mentre la prima "Nel mezzo". 😉
(**) Nel senso indicato da Piero Boitani – la mia fonte principale – in "L’ombra di Ulisse", Il Mulino 1992.
(***) Qui mi viene in mente quando si rompe l’otre dei venti di Eolo (Odissea X), ma questa è proprio una suggestione personale.

p.s. Questo post non c’entra niente con la Lectura Dantis fatta da Benigni ieri: l’ho scritto prima e neanche ricordavo che ci sarebbe stata. Ecco.

Se il respiro si fa corto

Avvertenza: questo post è inadatto a lettori di età inferiore a 40 anni.

Soggetto: costruire un modello semplice di parabola del percorso volitivo dell’individuo medio fondato sull’ipotesi seguente:

Giovinezza: Vorrei ma non posso.
Maturità: Potrei ma chi me lo fa fare?

con l’aggiunta degli estremi (ininfluenti)

Infanzia: Voglio tutto! Uèeeeeee! Nghè.
Vecchiaia: Voglio ciò che ho avuto ieri.


Svolgimento:

.

The show goes on

Su Repubblica di qualche settimana fa, pagine culturali, due begli articoli mi hanno stimolato altrettanti post. Con lo zelo che mi contraddistingue ultimamente, eccomi a vergarne uno – quasi un mese dopo.

Guy DebordQuarant’anni fa usciva "La società dello spettacolo" di Guy Debord. Un ottimo articolo del saggista Antonio Gnoli (cfr. "I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger") ricorda l’utopia e la lungimiranza di questo testo celebre, all’epoca di grande impatto – molto citato ma non altrettanto letto (e anche abbastanza dimenticato, almeno come approccio di ulteriori studi).

In effetti il capitalismo moderno – il mercato moderno – si è fatto un sol boccone di Debord e delle sue velleitarie utopie. Il Situazionismo è stato risucchiato nel venir meno di tutti i fermenti culturali e politici di fine anni 60/inizio 70. E bisogna ammettere che il linguaggio di Debord e la parte propositiva/ottativa del suo testo prestavano il fianco a tale fraintendimento.

Dico "fraintendimento" perché – come nel caso di Marx un secolo prima – in Debord c’è una parte di analisi della società  che sta benissimo in piedi anche senza l’altra parte, quella degli intenti e degli obiettivi. E quella parte di analisi resta ancora valida e attuale, anche se la realtà del mercato globale è andata persino oltre le previsioni di Debord, ed ha nel frattempo sviluppato la capacità di assimilare le voci di dissenso o di semplice distinzione: invece di combatterle o isolarle le trasforma in spettacoli anch’esse (possibilmente a pagamento).
È, questa, una capacità  che è cresciuta in tutti questi 40 anni. Paradossalmente anche l’impatto "rivoluzionario" dei fermenti sociali e politici degli anni dal 1968 a (diciamo) il 1977 (almeno in Italia) ha contribuito a far crescere questa capacità di disinnescare assimilando.

Niente di nuovo, nel dire oggi tutto ciò. Don DeLillo, in Cosmopolis (2003), ha dipinto il capitalismo moderno proprio in quei termini: il dissenso come sfogo necessario ma neutralizzabile (ed infatti quel romanzo suonava un po’ datato appena uscì).
Vari altri scrittori (Lethem, Wallace etc – memoria mia poca) nell’ultimo decennio hanno descritto il mondo contemporaneo mettendone in risalto il grottesco, l’assurdo, il teatrale. Gli scrittori, cioè, colgono quel mutamento "patologico" della realtà attuale per cui i comportamenti veri e quotidiani tendono ad imitare quelli fittizi inscenati per far vendere le merci. L’elemento patologico, in ciò, è nel fatto che anche l’identità e l’equilibrio dei singoli si adeguano alla logica del mercato. (Cfr. Dorfles, "Fatti e fattoidi".)
Tutto ciò è in effetti il compimento delle peggiori previsioni di Debord, il quale infatti, nei "Commentari sulla società dello spettacolo" (1988), concludeva che "Il vero ha smesso di esistere quasi dappertutto, e il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione pubblica".

Ciò nondimeno, dicevo, l’analisi di Debord mantiene validità (specie se la si spoglia degli orpelli linguistici della critica marxista): lo dimostra il fatto che la sostanza di essa – cioè la descrizione del potere politico – prefigura quella crisi del sistema democratico che oggi si comincia ad avvertire e di cui si è iniziato a parlare solo da qualche anno.

L’altro post che volevo fare prenderebbe spunto dall’articolo di Gabriele Romagnoli sul successo degli autori "antireligiosi". Ma ora gnaafò.