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La cosa bizzarra è che l’unica cosa che tiene in piedi il Governo Berlusconi è l’euro. Nessuno, in UE o nel mondo, può permettersi di far fallire l’Italia, in questo momento; a causa delle conseguenze a catena che ciò avrebbe.

Se non fosse per questa ragione, il Governo attuale sarebbe stato appeso per i piedi da un pezzo.

Ci vorrebbe un governo mondiale

Un bell’articolo di Aldo Schiavone (“Repubblica”, 21-8-2011) che chiarisce come la crisi degli Stati nazionali di fronte ai mercati mondiali non rappresenta il punto di arrivo del capitalismo (neretti miei).

“Se il crollo dei mercati trasforma la democrazia”, di Aldo Schiavone
Un tema che sembrava a molti dimenticato sta ritornando in questi giorni al centro dell´attenzione, spintovi dalle drammatiche vicende dell´estate: i rapporti fra politica ed economia in una democrazia matura. Mentre il decreto con la cosiddetta manovra si avvia verso il suo difficile cammino parlamentare, vale la pena di fermarsi ancora un momento a riflettere.
A volte, l´inconcludenza e la debolezza possono essere rivelatrici più della determinazione e della forza. Nella vita delle persone, come in quella delle nazioni. E così l´inadeguatezza del governo nel fronteggiare la crisi che sta scompaginando l´Occidente – inadeguatezza nella previsione, nella gestione, nel calcolo delle conseguenze – costringendo le istituzioni europee allo strappo di un brusco e inconsueto intervento, ci ha posto di fronte a uno stato di cose che non possiamo ignorare.
È messo a rischio il principio di sovranità degli Stati, ha scritto Roberto Esposito, aprendo un fronte d´analisi su cui molti commentatori si sono esercitati in questi giorni. E di sicuro qualcosa di profondo sta mutando nell´equilibrio dei poteri che reggono l´Occidente, mentre l´impressione di un ritrarsi sconfitto della politica – di ogni politica – innanzi all´invasività di un gioco finanziario autoreferenziale, ingordo e tendenzialmente antidemocratico appare sempre di più come un destino comune, e non soltanto italiano.
E però vi sono due elementi da tener presenti, che rendono il quadro forse meno fosco, e comunque più complicato di quanto non si creda.
Il primo riguarda il fatto che la rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie. Questo avrebbero dovuto spiegarci gli economisti, se l´economia fosse ancora una scienza sociale e non solo una modellistica matematica. Il tessuto democratico classico aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci materiali – sia dal lato operaio che da quello dell´impresa, dei mezzi di produzione – e aveva come punto di riferimento un capitale industriale poco mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e sociale.
Questo mondo è in via di estinzione. Il nuovo lavoro ad alta intensità tecnica e conoscitiva – quello su cui si fonda sempre di più la cittadinanza contemporanea (se vogliamo conservare un rapporto fra cittadinanza e creazione di ricchezza), quello cui affidiamo il nostro futuro – ha bisogno, per svilupparsi, di condizioni che solo capitali molto più duttili, reattivi e versatili sono in grado di assicurare: in altri termini, di una rete di mercati finanziari. Si stabilisce così una relazione strettissima fra innovazione tecnologica e trasformazione finanziaria dell´economia; e dunque, di conseguenza, fra lavoro e capitale finanziario: un nesso che si dimostra sempre di più la base stessa delle società contemporanee, dove la finanziarizzazione diventa parte integrante del quadro democratico. Senza lavoro non c´è democrazia (una Repubblica fondata sul lavoro, come dice la Costituzione). Ma oggi non c´è lavoro senza innovazione tecnologica e intensità di conoscenze. E queste a loro volta non si creano senza capitale e mercati finanziari. Il problema non sta dunque nella separazione – nel presunto abisso – fra politica ed economia, che se ne andrebbero ciascuna per le sue, l´una sempre più armata, l´altra più impotente, ma al contrario si trova nelle modalità del loro intreccio. La verità è che siamo entrati in una nuova epoca, segnata non dalle dicotomie ma dalle integrazioni: l´età della democrazia complessa.
Il secondo elemento, strettamente connesso al precedente, riguarda l´immodificabilità delle strutture economiche da parte della politica. La vulgata ideologica che ci ha sommerso per oltre un ventennio (altro che fine delle ideologie!) pretendeva che l´anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni fosse l´unica risposta possibile, e che l´assoluta anomia dei mercati coincidesse con il miglior mercato pensabile. Come se la globalizzazione dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo che contasse per dare una forma alle nostre vite.
C´è voluta una crisi mondiale per capire che non era così; che tanto selvaggio anarchismo era solo l´esito storico, del tutto provvisorio, della fase d’avvio della rivoluzione tecnologica – esattamente come era accaduto, due secoli fa, con la rivoluzione industriale – e che molte strade, anche assai diverse fra loro, ci si aprono davanti. Esattamente come è già successo di fronte alla rivoluzione industriale, sta alla politica disegnare lo scenario che ci aspetta: aprire una grande stagione di riequilibrio e di assestamento globale, di crescita sostenibile e di riduzione delle diseguaglianze – come è realistico e del tutto alla nostra portata – o rimettersi ostinatamente, come se nulla fosse, sulla via della rottura e della lacerazione. Il modo di produzione capitalistico ha questo che lo rende unico nella storia, e, per ora, insostituibile: di avere confini (empiricamente e concettualmente) inesplorati, dove è possibile coniugare in molti modi, anche inediti, profitto ed equità. Certo, si è creata una dissimmetria fra la pesante localizzazione “nazionale” del comando politico, e la leggerezza globalizzata della nuova economia. C´è chi ha cercato di incunearsi in questo vuoto. Colmarlo non è impossibile: una nuova sfida per una politica all´altezza dei tempi, e non un ostacolo da trasformare in un alibi. L´Italia è troppo piccola per immaginarsi di trovare da sola una soluzione; ma è abbastanza grande da non sfuggire alla responsabilità di cercarla. Che questo obiettivo oggi appaia del tutto fuori dei nostri orizzonti è un´altra colpa – forse la più grave – di chi ci ha governato in questi anni.

Quella scandalosa proposta di Giuliano Amato

Ridurre il debito pubblico italiano di un terzo. Come? Giuliano Amato, già Presidente del Consiglio, Ministro nella Prima e nella Seconda Repubblica, vicesegretario PSI, Vicepresidente della Convenzione europea etc., propose nel dicembre del 2010 di fare così: si impone una tassa una tantum di 30.000 € ad 1/3 degli italiani (i più ricchi), e bell’e fatto.

Infatti 1/10 delle famiglie italiane possiede il 45% della ricchezza totale delle famiglie. Ricordiamo che le famiglie italiane sono 27 milioni e che la ricchezza privata degli italiani ammonta (2009) a circa 8.500 miliardi di euro. Considerando che, appunto, un decimo di queste famiglie possiede il 45% della ricchezza (3.800 miliardi di euro), e considerando l’indice di Gini, si può stimare che un terzo delle famiglie possegga circa il 60% della ricchezza; cioè 9 milioni di famiglie posseggono 5.130 miliardi di euro.

Poiché il numero medio di componenti di una famiglia è 2,59, si ha che 23 milioni di italiani posseggono 5.130 miliardi di euro.

Quindi, ecco cosa dice Amato: “L’Istat ha detto che il nostro debito totale ammonta a circa 30.000 euro per italiano. Non è così gigantesco. Un terzo di questo debito abbattuto metterebbe l’Italia in una zona di assoluta sicurezza. Potrebbe arrivare a circa l’80 per cento del Pil. Un terzo significa, probabilmente, imporre ad un terzo degli italiani, teoricamente, di pagare un terzo dei 30.000. E’ così spaventoso spalmare, tra chi ha di più rispetto a chi ha di meno, 10.000 euro per risolvere un problema che così grave? Nessuno, nemmeno la sinistra ha il coraggio di sostenere una simile proposta.”(*)

Precisiamo che “spalmare 10.000 euro” del debito che ha ogni italiano su 23 milioni di italiani significa far pagare a questi ultimi circa 690 miliardi, cioè, appunto, circa 30.000 euro a testa.

Si fa tanto per dire, chiaro.

(*) Dall’intervento al convegno promosso dalle Nuove Ragioni del Socialismo, la rivista diretta da Emanuele Macaluso, e dalla Ebert Stiftung, la fondazione della socialdemocrazia tedesca sui “Socialdemocratici nell’Europa in crisi”.

Cialtroni

Berlusconi e Tremonti, 26  maggio 2011: “Non ci sarà nessuna manovra correttiva”. (FTSE MIB 20668 punti)

Tremonti, giugno 2011: “Manovra correttiva da 47 miliardi”.  (FTSE MIB 20.084 punti)

15 luglio 2011: Approvata manovra da 79 miliardi. (FTSE MIB 18.543 punti)

Tremonti e Berlusconi, 6 agosto 2011: La manovra sarà anticipata “ma non modificata”. (FTSE MIB 16.015 punti)

Tremonti, 10 agosto 2011: “La manovra andrà modificata“. (FTSE MIB 14.676 punti)

 

 

Ebook reader e costo dei libri di testo

Lo Stato italiano stanzierà nel 2010 103 milioni di euro per assicurare la gratuità parziale dei libri di testo (lo prevede la Legge finanziaria che verrà approvata domani con voto di fiducia.

Quanto risparmierebbe, lo Stato, attuando subito quanto previsto dalla Legge 133/08, articolo 15¹? E quanto risparmierebbero le famiglie italiane, sul costo dei libri di testo?

La legge 133 non parla di ebook reader, ma questo strumento – ormai accessibile ad un costo ragionevole – è quello che permetterebbe di rendere praticamente attuabile l’uso di libri di testo in formato digitale, e di risparmiare ugualmente fin dal primo anno (molto di più gli anni seguenti, ovvio).

¹ Il testo dell’art.15 della Legge 133/2008:

Art. 15. Costo dei libri scolastici
1. A partire dall’anno scolastico 2008-2009, nel rispetto della normativa vigente e fatta salva l’autonomia didattica nell’adozione dei libri di testo nelle scuole di ogni ordine e grado, tenuto conto dell’organizzazione didattica esistente, i competenti organi individuano preferibilmente i libri di testo disponibili, in tutto o in parte, nella rete internet. Gli studenti accedono ai testi disponibili tramite internet, gratuitamente o dietro pagamento a seconda dei casi previsti dalla normativa vigente.
2. Al fine di potenziare la disponibilità e la fruibilità, a costi contenuti di testi, documenti e strumenti didattici da parte delle scuole, degli alunni e delle loro famiglie, nel termine di un triennio, a decorrere dall’anno scolastico 2008-2009, i libri di testo per le scuole del primo ciclo dell’istruzione, di cui al decreto legislativo 19 febbraio 2004, n. 59, e per gli istituti di istruzione di secondo grado sono prodotti nelle versioni a stampa, on line scaricabile da internet, e mista. A partire dall’anno scolastico 2011-2012, il collegio dei docenti adotta esclusivamente libri utilizzabili nelle versioni on line scaricabili da internet o mista. Sono fatte salve le disposizioni relative all’adozione di strumenti didattici per i soggetti diversamente abili.
3. I libri di testo sviluppano i contenuti essenziali delle Indicazioni nazionali dei piani di studio e possono essere realizzati in sezioni tematiche, corrispondenti ad unità di apprendimento, di costo contenuto e suscettibili di successivi aggiornamenti e integrazioni. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sono determinati:
a) le caratteristiche tecniche dei libri di testo nella versione a stampa, anche al fine di assicurarne il contenimento del peso;
b) le caratteristiche tecnologiche dei libri di testo nelle versioni on line e mista;
c) il prezzo dei libri di testo della scuola primaria e i tetti di spesa dell’intera dotazione libraria per ciascun anno della scuola secondaria di I e II grado, nel rispetto dei diritti patrimoniali dell’autore e dell’editore.
4. Le Università e le Istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, nel rispetto della propria autonomia, adottano linee di indirizzo ispirate ai principi di cui ai commi 1, 2 e 3.

I soldi cinesi non hanno più odore

La memoria della cronaca politica italiana è brevissima.

Pochi perciò ricorderanno cosa diceva il centrodestra riguardo alla Cina e alla sua economia rampante nel 2004, durante il viaggio di Ciampi nella Repubblica popolare: Tremonti invocava dazi e protezionismo contro le importazioni cinesi; la Lega gli andava dietro coi toni estremi che le sono propri.

Pochi ricorderanno anche che Prodi, nel 2006, diceva che l’economia cinese è una grande opportunità per le aziende e i prodotti italiani: un grande mercato con grandi liquidità con cui intrecciare rapporti al più presto. E ovviamente il centrodestra attaccava a testa bassa quelle posizioni, tornando a parlare di protezionismo.

Ecco, ciò che diceva Prodi allora oggi lo sostengono, sorridendo da un’orecchia all’altra, tutti i portavoce del centrodestra e Berlusconi stesso.

Fiat, Chrysler, Obama… E Berlusconi?

Se non sbaglio il Governo italiano non ha avuto alcun ruolo nell’accordo Fiat-Chrysler.

Certamente non ha avuto parte nella vicenda il leader politico più amato al mondo. Se così non fosse, infatti, avremmo veduto la solita esibizione di vanità da avanspettacolo.

La cosa ha una certa rilevanza dal momento che quell’accordo tra due grandi case automobilistiche è stato cercato, voluto e favorito dal presidente USA Barack Obama. Non si tratta semplicemente di una trattativa tra due aziende private.

Ma, evidentemente, non si sentiva il bisogno di far partecipare i clown.

Dati sbadati sull’andamento dell’economia?

Financial Times e Borsaitalia.it dicono che in Italia cala il consumo di energia elettrica del 30% in novembre 2008; e che calano le immatricolazioni auto del 29%.

Terna (fonte del Financial Times, il quale è fonte di borsaitalia.it) dice però che in ottobre il consumo di energia elettrica è calato solo del 2,8% (2,5% se si considera che ha fatto più caldo dell’anno scorso).
E Repubblica Auto, inserto in edicola oggi col quotidiano, riporta il dato delle vendite del 2008: -11,9% rispetto al 2007. (Mentre Repubblica.it cita il calo di immatricolazioni del 30%.)

Insomma, su dati così importanti (pressoché ignorati dalla stampa, come nota .mau.) non si riesce neanche ad avere cifre concordi. Forse sono solo leggerezze o ambiguità degli articoli, ma ciò è abbastanza sorprendente, trattandosi di indicatori parecchio significativi della crisi economica.