Boeri sul calo delle iscrizioni all’Università

L’analisi di Tito Boeri sugli effetti della politica berlusconiana su formazione e università. In tre anni c’è stato il calo “di quasi il 10 per cento delle immatricolazioni, pur avendo già ora uno dei rapporti tra laureati e popolazione in età lavorativa più bassi dell’ Unione europea”.

“Nei periodi di crisi le iscrizioni ai corsi universitari aumentano perché il tempo dedicato allo studio non viene sottratto ad attività remunerative, dato che non si trova comunque lavoro. È avvenuto anche nella Grande Recessione. Ovunque, tranne che da noi.”

“Non si tratta di un fenomeno legato all’ invecchiamento della popolazione. Non c’ è stata una diminuzione delle coorti in uscita dalla scuola secondaria. Al contrario, nel 2010 ci sono stati 5.000 diplomati in più che nel 2008.”

“Non è neanche colpa delle tasse universitarie. Le entrate contributive per studente sarebbero addirittura diminuite in termini reali negli ultimi anni secondo i dati raccolti dal Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario.”

“La forte riduzione nelle iscrizioni dei diciannovenni all’ università è grave perché avviene proprio in un momento in cui c’ è stato un ampliamento del divario nelle opportunità lavorative fra laureati e diplomati. La disoccupazione fra i poco istruiti è aumentata in tutta Europa di 6 punti percentuali contro meno di2 punti per i laureati. In Italia un laureato guadagna, a parità di altre condizioni, circa il 50 per cento in più di un diplomato.”

“Come spiegare allora il calo delle iscrizioni? Non poche famiglie possono avere problemi di liquidità nel finanziare gli studi in periodi di crisi, soprattutto quando si tratta di istruzione di qualità.”

“Un’ altra spiegazione è legata all’ insuccesso sin qui delle lauree brevi…”

“Una terza spiegazione ha a che vedere con il dualismo del nostro mercato del lavoro (…). Il precariato porta con sé un appiattimento della struttura retributiva tra chi è laureato e chi non lo è.”

 

Tipico discorso patriottico

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😀

 

La scuola dei non cittadini

Oggi c’è la manifestazione in difesa della scuola pubblica, provocata dalle manovre diversive di Berlusconi.

Ciò mi dà lo spunto per metter qua una considerazione che faccio da anni: come mai i Governi che si sono succeduti dal ’46 ad oggi hanno sempre rinunciato ad utilizzare questo importante strumento – la scuola pubblica dell’obbligo –  per formare dei cittadini consapevoli ed informati sulle regole  di base della democrazia e dello stato di diritto?

Oddio, in realtà non so come stiano le cose oggi – nella pratica, non nei programmi – ma 30-40 anni fa, quando ho frequentato elementari e medie inferiori, nelle scuole italiane c’era solo un’oretta di Educazione civica infilata nell’orario a discrezione dell’insegnante di Lettere.

Lo Stato italiano, insomma, ha declassato e ignorato la formazione dei futuri cittadini ed elettori proprio sulle materie che occorrerebbero loro per essere cittadini ed elettori consapevoli.

Non voglio dire che lo stato attuale, disastroso, della partecipazione alla vita democratica sia conseguenza di quella sola scelta, però forse la situazione sarebbe un po’ diversa se la scuola dell’obbligo avesse insegnato ai futuri cittadini gli equilibri dell’architettura costituzionale, le basi del Diritto, la necessità della separazione dei poteri e così via. Non lo si è fatto, ed oggi la demagogia ha più spazi per attecchire.

Pro memoria storica

La tassa di soggiorno che il Governo si appresta a reintrodurre fu abolita nel 1989. Esisteva dagli anni ’30.

Perché fu abolita? Perché 1) danneggiava il turismo; 2) era difficile farla pagare; 3) gli introiti venivano spesi in larga parte per coprire i costi della riscossione.

Così, tanto per dare un po’ di memoria storica. Anche a vantaggio di Matteo Renzi e Michele Ventura.

Scemenze /1

Qualche giorno fa ho sentito uno stimato commentatore parlare del federalismo. Ricordava, questi, che l’idea federale, in Italia, si diffonde durante il Risorgimento. E, continuava, questo mostra come tale concetto non sia legato all’idea di scissione, separazione, localismo: infatti i sostenitori risorgimentali del federalismo auspicavano quell’unità d’Italia che ancora non c’era.

Grazie al cazzo!, mi vien da dire. Quando si parla di federalismo tra Stati diversi lo si intende come un modo per riunire (“federare”, appunto) realtà politiche distinte. Ma quando si parla di “federalismo” in uno Stato unitario la cosa è diversa. Opposta, direi.