L’intervento che ho inviato al Lingotto

L’ho spedito un po’ fuori tempo massimo (ieri mattina), il mio minimo contributo al dibattito dei gggiovani del PD; pazienza. Lo ripropongo qua.

Un anno e mezzo di balbettii, di mancanza di linea e di leadership, di perdita di consensi del Partito Democratico ha avuto almeno un effetto positivo: ha evidenziato e reso palese il degrado di una classe dirigente che, mancando un partito forte e strutturato, ha rafforzato il proprio potere nei propri “feudi” con più spregiudicatezza e spudoratezza di quanto non facesse in passato.
Quei dirigenti c’erano anche prima, e il loro modo di concepire la politica come mantenimento del potere personale non era certo diverso. Ma la nascita del PD ha incrinato gli equilibri e la sua debolezza ha permesso che ciascuno manovrasse per il proprio tornaconto come se non ci fossero più regole, neanche per salvaguardare l’apparenza.

In Abruzzo, nelle Marche, in Basilicata, in Toscana, in Campania è stata la Magistratura a scoperchiare qualche pentola, tanto da far parlare di una “questione morale” dentro un partito che è erede anche della sinistra storica. Ma in moltissime altre realtà locali si sono visti comportamenti un tempo impensabili, spesso sfociati in spaccature che si sono mantenute tali anche di fronte all’appuntamento elettorale (in provincia di Pistoia tre Comuni governati dal centrosinistra sono andati alle urne vedendo liste contrapposte formate da scissioni del PD – in tutti e tre ha vinto il centrodestra; a Prato, Comune capoluogo vinto inaspettatamente dal centrodestra per pochi voti, si è presentata una lista guidata da un ex assessore del PD che, al ballottaggio, si è schierata con la destra; solo per fare pochi esempi tratti dalla mia zona).
Questo per dire che, a mio parere, il problema più grave che il PD deve affrontare in questa fase di (auspicata) ripartenza è costituito da una parte della sua dirigenza. Una parte, non tutta, certo. Ma quella parte degradata (“deviata”, potrei dire) della dirigenza del PD deve essere individuata e sostituita – o almeno messa in condizione di non nuocere attraverso regole rigorose. Non può essere accettato più che un assessore indagato per corruzione non si dimetta; non può esistere che un sindaco di un capoluogo di regione sia anche segretario regionale del partito; non è concepibile che il sindaco di un comune dove il PD ha commissariato l’Unione comunale vada a trattare con il commissario portandosi un registratore; non si può tollerare che un parlamentare del PD voti contro la fiducia al governo Prodi e resti dentro il PD – solo per fare degli esempi.

Sottolineo questi problemi prima di parlare di linea politica, di contenuti, di valori: certo, la mancanza di linea, di sintesi unitaria, persino di chiarezza sui valori fondanti (e un partito *esiste* in quanto ha dei valori inderogabili) sono lacune fortemente avvertite ad ogni livello nel PD. Ed è chiaro che queste lacune devono scomparire. Però io credo che la linea, i valori, i programmi rischino di restare parole di facciata se non viene affrontato il problema della moralità della classe dirigente. Gli opportunisti, i maneggioni, gli intrallazzatori si adeguano con grande facilità alle dichiarazioni di intenti e alle belle parole, quali esse siano e qualunque sia la “corrente” vincente che le propugna.

Detto questo, non penso certo che sia possibile – anche nel caso (impensabile) ve ne fosse la volontà da parte della leadership che uscirà dal congresso nazionale – liquidare di colpo una parte significativa della classe dirigente. Anche perché il personalismo, l’opportunismo e l’arrivismo non abitano in una sola corrente, non hanno una sola provenienza e non sono neanche individuabili anagraficamente (guardiamoci dai giovani arrivisti). Si può però, come dicevo, fissare delle regole e rispettarle con grande rigore, senza temere di perdere per strada qualcuno e nemmeno di subire vere e proprie scissioni.
L’altra cosa che può esser fatta per circoscrivere la corruzione morale dentro al PD è quella di incentivare la partecipazione più ampia possibile alla vita del partito: far funzionare i circoli (che oggi, in larga parte, esistono solo sulla carta), allargare il tesseramento, istituire incontri regolari e periodici tra dirigenti e amministratori e la base; fare in modo, cioè, che gli iscritti e gli elettori possano chieder conto regolarmente ai propri amministratori e dirigenti delle scelte che fanno. Il “partito leggero”, al momento, sarebbe un partito in mano ai capibastone e ai cacicchi. Un partito nuovo non può calare dall’alto, e non può limitarsi a interrogare il proprio elettorato nelle primarie.

Una base di iscritti ampia, attiva, ramificata nel territorio è necessaria anche per far sì che le primarie non siano gestite in modo poco chiaro e non rappresentino ogni volta delle rotture. In molti casi le elezioni primarie che hanno preceduto le recenti elezioni sono state teatro di scorrettezze e clientelismi. Ed è l’assenza di un partito forte e radicato che ha permesso ciò. In una situazione “feudale” le primarie diventano uno strumento che rafforza il potere di chi già lo gestisce e che favorisce chi ha una rete di clientele e di relazioni.
Un partito con una base ampia e attiva sembra un modello del passato, però io non vedo un modello migliore. Dare spazio e voce all’elettorato del PD mi pare indispensabile. L’elettorato del PD è migliore della dirigenza che lo guida e lo blandisce. Gran parte dell’elettorato del PD è fatto di persone informate, attente alle vicende politiche e soprattutto fortemente legate a valori e idee che sono esattamente quelli su cui il Partito Democratico voleva fondarsi. Il fatto che due terzi degli elettori del PD del 2008 abbiano continuato a votarlo dopo un anno e mezzo di amarezze, delusioni, indignazioni e incazzature dimostra che quella è la forza a cui far riferimento. Finché c’è.

Paolo Beneforti 27/06/2009