Derrida e l’Europa dell’integrazione possibile

[Repost con aggiunte di un articolo di qualche anno fa]

Il 22 settembre 2001 Jacques Derrida ricevette, a Francoforte, il Premio Adorno.
Il premio avrebbe dovuto esser consegnato, come sempre, l’11 settembre (data di nascita di Adorno); ma l’11 settembre 2001 Derrida era in Cina, dunque la cerimonia fu fissata per il 22.

Bompiani ha pubblicato, in un libricino della collana Paesaggi (“Il sogno di Benjamin“), il discorso di Derrida per la consegna di quel premio.
È un po’ più che un discorso di circostanza; e suona forse ancora più attuale oggi, a 8 anni di distanza, di quanto non fosse allora. (Quell’11 settembre 2001, come tutti sanno, si son levate polveri che solo adesso – forse – si stanno posando.) Il tema strettamente filosofico
del debito di Derrida verso Adorno si sviluppa in modo tortuoso andando a parlare dell’antisemitismo, della comprensione tra culture (e lingue), dell’attentato delle Twin towers avvenuto pochi giorni prima.

Il nocciolo: una tradizione politica e irrazionalista ha attraversato in forme molteplici il 900. Che essa possa essere ancora il cardine di un progetto sociale ideale, suona un po’ bizzarro. Il ‘900 ha pagato caro il credito dato a utopie idealiste e cecità di massa. Ma Derrida sostiene proprio quello, e lo argomenta con la consueta acutezza ed ambiguità.
Può un sognatore parlare del suo sogno senza svegliarsi? Il filosofo, dice Derrida, risponde di no; l’artista risponde “forse, talvolta”. Adorno, e Benjamin prima di lui, oscillano tra le due risposte, tentando di farle coesistere. Ciò implica quella che Adorno chiama “la possibilità dell’impossibile”: “Nel paradosso della possibilità dell’impossibile, scrive Adorno, per l’ultima volta si sono trovati insieme in lui [Benjamin] misticismo e illuminismo. Egli ha bandito il sogno senza tradirlo, e senza farsi complice di ciò su cui i filosofi sempre si sono trovati d’accordo: che questa unione non fosse possibile”.

Bandire il sogno senza tradirlo” suona più che altro lirico; ma in Benjamin acquista anche un senso preciso; (un senso che tra l’altro “veste” bene sul personaggio Walter Benjamin così come appare nel romanzo di Michele Mari “Tutto il ferro della Torre Eiffelen passant); un senso che in Adorno prende invece la forma dell’esigenza di salvaguardare la propria lingua dell’infanzia(*).
Per Derrida l’attenzione di Adorno verso la lingua natale è un discorso che “dovrebbe risultare esemplare, oggi, per tutti coloro che cercano, nel mondo, ma in particolare nell’Europa in costruzione, di definire un’altra etica o un’altra politica, un’altra economia, o anche un’altra ecologia della lingua: come coltivare la poeticità dell’idioma in generale, il suo presso di sé, il suo oikos, come salvare la differenza linguistica, regionale o nazionale, come resistere allo stesso tempo all’egemonia internazionale di una lingua di comunicazione (per Adorno era già l’angloamericano), come opporsi all’utilitarismo strumentale di una lingua puramente funzionale e comunicativa, senza tuttavia cedere al nazionalismo, allo statal-nazionalismo, o al sovranitarismo statal-nazionalista, senza prestare queste vecchie armi arrugginite alla reattività identitaria e a tutta la vecchia ideologia sovranitarista, comunitarista e differenzialista?

Programma impegnativo e dalla soluzione contraddittoria, quello dove va a parare il discorso di Derrida. La soluzione, infatti, è nell’eredità di una linea di pensiero del ‘900 capace di dare continuità e senso alla cultura occidentale (e alla società, utopisticamente), e consiste nel cercare di salvaguardare ciò che è intimamente radicato in ciascuno – in sé e negli altri – in termini di sogno, lingua, inconscio, infanzia – e che corrisponde, come vulnerabilità, come essere-senza-potere, all’animale, al bambino, all’ebreo, allo straniero, alla donna.

Discorso complesso, su cui non è questa la sede per dilungarsi (né io ne ho la competenza); discorso che inoltre perde consistenza quando lo si allarga fino a trarne una impostazione politica per il filosofo europeo di oggi. Perde peso non perchè non sia condivisibile,
IMO, una scelta “forte” come quella succitata (che coniuga storia e storia personale nella difesa e nella salvaguardia degli inermi motivata
dall’esigenza di “bandire il sogno senza tradirlo”), ma perché è a dir poco utopistico pensare che i filosofi possano incidere sullo sviluppo
dell’Europa politica.

Ciò nondimeno è tema concretamente attuale proprio oggi, nel momento in cui l’integrazione culturale e la modifica/salvaguardia delle identità personali e collettive è questione che chiede e cerca soluzioni e linee-guida. La direzione tratteggiata allora – pochi giorni dopo l’11 settembre – da Derrida è un possibile punto di partenza per rispondere concretamente sia all’idealismo del generico valore della fratellanza, sia al nazionalismo criptorazzista di chi è ostile a qualunque integrazione che non sia mera sottomissione.

(*) Sulla lingua/lingue dell’infanzia e sull’integrazione trans-nazionale, andrebbe visto e comparato anche Elias Canetti.