Correva l’anno 1953

Ho messo online il file audio di Pasolini che legge la sua poesia "Il canto popolare" . 

Qui.

Il canto popolare – Pier Paolo Pasolinipasolini

    
    Improvviso il mille novecento
    cinquanta due passa sull’Italia:
    solo il popolo ne ha un sentimento
    vero: mai tolto al tempo, non l’abbaglia
    la modernità, benché sempre il più
    moderno sia esso, il popolo, spanto
    in borghi, in rioni, con gioventù
    sempre nuove – nuove al vecchio canto –
    a ripetere ingenuo quello che fu.
    
    Scotta il primo sole dolce dell’anno
    sopra i portici delle cittadine
    di provincia, sui paesi che sanno
    ancora di nevi, sulle appenniniche
    greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
    i nuovi colori delle tele, i nuovi
    vestiti come in limpidi roghi
    dicono quanto oggi si rinnovi
    il mondo, che diverse gioie sfoghi…
    
    Ah, noi che viviamo in una sola
    generazione ogni generazione
    vissuta qui, in queste terre ora
    umiliate, non abbiamo nozione
    vera di chi è partecipe alla storia
    solo per orale, magica esperienza;
    e vive puro, non oltre la memoria
    della generazione in cui presenza
    della vita è la sua vita perentoria.
    
    Nella vita che è vita perché assunta
    nella nostra ragione e costruita
    per il nostro passaggio – e ora giunta
    a essere altra, oltre il nostro accanito
    difenderla – aspetta – cantando supino,
    accampato nei nostri quartieri
    a lui sconosciuti, e pronto fino
    dalle più fresche e inanimate ère –
    il popolo: muta in lui l’uomo il destino.
    
    E se ci rivolgiamo a quel passato
    ch’è nostro privilegio, altre fiumane
    di popolo ecco cantare: recuperato
    è il nostro moto fin dalle cristiane
    origini, ma resta indietro, immobile,
    quel canto. Si ripete uguale.
    Nelle sere non più torce ma globi
    di luce, e la periferia non pare
    altra, non altri i ragazzi nuovi…
    
    Tra gli orti cupi, al pigro solicello
    Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
    d’Ivrea gridano, e pei valloncelli
    di Toscana, con strilli di rondinini:
    Hor atorno fratt Helya! La santa
    violenza sui rozzi cuori il clero
    calca, rozzo, e li asserva a un’infanzia
    feroce nel feudo provinciale l’Impero
    da Iddio imposto: e il popolo canta.
    
    Un grande concerto di scalpelli
    sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
    sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
    suona, giganteggiando il travertino
    nel nuovo spazio in cui s’affranca
    l’Uomo: e il manovale Dov’andastà
    jersera… ripete con l’anima spanta
    nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
    resta nel popolo. E il popolo canta.
    
    Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
    e trepidi nel vento napoleonico,
    all’Inno dell’Albero della Libertà,
    tremano i nuovi colori delle nazioni.
    Ma, cane affamato, difende il bracciante
    i suoi padroni, ne canta la ferocia,
    Guagliune ‘e mala vita! in branchi
    feroci. La libertà non ha voce
    per il popolo cane. E il popolo canta.
    
    Ragazzo del popolo che canti,
    qui a Rebibbia sulla misera riva
    dell’Aniene la nuova canzonetta, vanti
    è vero, cantando, l’antica, la festiva
    leggerezza dei semplici. Ma quale
    dura certezza tu sollevi insieme
    d’imminente riscossa, in mezzo a ignari
    tuguri e grattacieli, allegro seme
    in cuore al triste mondo popolare.
    
    Nella tua incoscienza è la coscienza
    che in te la storia vuole, questa storia
    il cui Uomo non ha più che la violenza
    delle memorie, non la libera memoria…
    E ormai, forse, altra scelta non ha
    che dare alla sua ansia di giustizia
    la forza della tua felicità,
    e alla luce di un tempo che inizia
    la luce di chi è ciò che non sa.
    
    1952-53

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